«Volli istituire “un nuovo, completo e libero esame della Scrittura”» .
Con questa dichiarazione, posta nella Prefazione del Tractatus theologico-politicus (1670), Spinoza spiazza i suoi contemporanei: la Bibbia, dice, va trattata come qualsiasi altro testo umano, scritto da autori diversi in circostanze storiche diverse. Non è un oggetto magico da venerare, ma un documento che racconta la vita di un popolo.
Il “metodo” che propone è sorprendentemente moderno. Prima domanda: che cos’è il testo e chi lo ha scritto? Solo dopo si potrà discutere del suo valore religioso. Esattamente come l’archeologo non confonde il reperto con il mito che lo circonda, così l’interprete spinoziano scava tra lingue, usi, cronache e interessi politici dell’epoca.
Spinoza insiste che “la Scrittura lascia la ragione assolutamente libera e […] non ha nulla in comune con la filosofia” . In altre parole: i racconti biblici spiegano la legge morale, non la fisica dei cieli; Galileo è più affidabile di Isaia se si tratta di calcolare l’orbita di Giove. Questa separazione è la premessa per liberare la scienza dai confini dell’esegesi e, insieme, preservare la fede dal rischio di dover difendere l’indifendibile (per esempio la geografia dei «quattro angoli della terra»).