Non usiamo gli oggetti, li recitiamo: Baudrillard e il senso nascosto del consumo

Quando acquistiamo un oggetto — che sia un divano, un paio di scarpe o un nuovo smartphone — ci piace pensare di averlo fatto per soddisfare un bisogno. Ma è davvero così? O c’è sotto qualcos’altro, qualcosa che ha a che fare non tanto con l’uso, quanto con il significato che quell’oggetto assume nel nostro mondo sociale?

Jean Baudrillard, sociologo e filosofo francese tra i più originali del secondo Novecento, ci invita a capovolgere il modo in cui interpretiamo gli oggetti quotidiani. Secondo lui, il consumo moderno non è tanto una questione di bisogni individuali, ma di segni sociali. Gli oggetti — come quelli in vetrina o nelle pubblicità — non ci parlano solo di ciò che fanno, ma soprattutto di chi siamo (o vogliamo essere) agli occhi degli altri.

Non bisogni, ma prestigio

L’idea più diffusa è quella che gli oggetti servano a soddisfare necessità concrete. È un’ipotesi “empirista”, dice Baudrillard, cioè basata sull’esperienza vissuta: un coltello serve a tagliare, una sedia a sedersi. Ma questa visione è troppo semplice. In realtà, secondo Baudrillard, ciò che conta non è tanto l’utilità pratica (valore d’uso), ma il messaggio sociale che l’oggetto trasmette: il suo valore come segno.

L’oggetto, quindi, è un mezzo per dire qualcosa agli altri, non solo uno strumento. È come se ogni oggetto fosse una parola dentro un linguaggio fatto di scambi simbolici. Pensiamo a una borsa firmata: può anche essere utile, ma è soprattutto un modo per affermare uno status.

Dalla kula al gadget

Baudrillard fa un salto indietro nel tempo e guarda alle società primitive, come quelle studiate da Malinowski nelle isole Trobriand. Lì esistevano due tipi di scambi: da una parte il commercio di beni necessari (il gimwali), dall’altra lo scambio simbolico di oggetti prestigiosi (la kula), come collane o bracciali, che non servivano a nulla ma stabilivano gerarchie sociali. Il dono, in questo caso, era un modo per consolidare rapporti e posizioni.

Oggi la distinzione tra beni utili e segni di prestigio si è fatta più sfumata. Eppure — sostiene Baudrillard — il principio della “kula” è ancora vivo: anche nel nostro mondo iper-consumistico, ogni acquisto racchiude un gesto simbolico. Ogni oggetto scelto, esibito o regalato è un’azione sociale.

Il consumo per procura

Il sociologo americano Thorstein Veblen, a fine Ottocento, aveva notato qualcosa di simile: parlava di “consumo vistoso” (conspicuous consumption), ovvero del modo in cui le classi agiate ostentano la propria ricchezza con spese inutili. Non solo: Veblen introduce un concetto ancora più acuto, quello di consumo per procura (vicarious consumption). Le donne, i domestici, il personale servile, non consumavano per sé, ma per mostrare il potere del padrone.

Nel sistema patriarcale, dice Veblen, la donna vestita con abiti lussuosi non lo fa per piacere personale, ma per testimoniare la grandezza sociale dell’uomo a cui appartiene. Lo stesso vale per la cultura: nelle classi agiate, la cultura delle donne diventa un segno di distinzione del gruppo.

Oggetti che fingono

Nel mondo contemporaneo, però, qualcosa è cambiato. Gli oggetti non possono più essere apertamente inutili o oziosi. Viviamo in una società che premia l’efficienza, la produttività, la funzione. Così si crea un paradosso: l’oggetto di prestigio deve sembrare utile. E quello utile si carica di segni, stili, decorazioni che lo rendono anche un oggetto simbolico.

È il regno del simulacro funzionale: gli oggetti inscenano una funzione, ma sono in realtà il veicolo di messaggi sociali. Il gadget ne è l’emblema: ha una funzione apparente, ma è pura decorazione travestita da utilità. In questa messa in scena, l’Homo faber — l’uomo che lavora — si mescola con l’Homo otiosus — l’uomo dell’ozio e del prestigio.

In altre parole: ogni oggetto che possediamo è il risultato di un compromesso. Da un lato deve sembrare razionale, utile, “meritato”. Dall’altro, continua a svolgere la sua funzione antica: dire chi siamo, a che classe apparteniamo, quanto valiamo.

L’obbligo morale di consumare

Alla fine, Baudrillard ci mostra che il consumo è diventato una vera e propria morale. Non scegliamo gli oggetti solo per piacere: li scegliamo perché “dobbiamo”. È una pressione sociale, spesso inconscia, che ci spinge a possedere certi oggetti, a seguirne la moda, a “stare al passo”.

Il consumo non è più una libertà, ma una prestazione. È come se ogni acquisto fosse un esame, una prova di valore, una Bewährung, direbbero i tedeschi: una dimostrazione permanente del nostro posto nel mondo. Come nell’etica protestante descritta da Max Weber, dove il lavoro era la prova della propria salvezza, oggi è il consumo a funzionare allo stesso modo. Ma dietro la libertà apparente del nostro shopping quotidiano, si nasconde ancora la più antica delle disuguaglianze: quella che separa chi può esibire e chi no.


Riferimento bibliografico:
Jean Baudrillard, Funzione sociale dell’oggetto-segno, in «Communications», n. 13, 1969.


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